Kobe Bean Bryant: differenze tra le versioni
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Per il funerale, la famiglia ha scelto una cerimonia privata, a cui erano presenti pochi intimi, nel massimo della riservatezza, dopodiché il 24 febbraio 2020 circa un mese dopo la scomparsa del Black Mamba, vi fu il Memorial allo Staples Centre di Los Angeles per un ultimo addio. Erano 20.000 i tifosi e gli appassionati che hanno partecipato al memoriale, tra essi vi erano presenti molti ex giocatori e giocatori, nonché allenatori. Ad aprire la commemorazione è stata la cantante Beyoncè, amica di Kobe, che ha cantato due suoi brani tra cui il preferito di Kobe: “Xo”. Nel corso della cerimonia si sono esibite anche Christina Aguilera in Ave Maria e Alicia Keys suonando al pianoforte Sonata al chiaro di luna di Beethoven Si sono poi espressi in memoria di Kobe e della figlia Gianna detta Gigi, il famoso conduttore televisivo Jimmy Kimmel, la moglie e madre Vanessa Laine, Diana Taurasi giocatrice della Wnba e soprannominata da Kobe “White Mamba”, Michael Jordan l’idolo divenuto quasi un fratello maggiore e l’amico-nemico Shaquille O’Neal. | Per il funerale, la famiglia ha scelto una cerimonia privata, a cui erano presenti pochi intimi, nel massimo della riservatezza, dopodiché il 24 febbraio 2020 circa un mese dopo la scomparsa del Black Mamba, vi fu il Memorial allo Staples Centre di Los Angeles per un ultimo addio. Erano 20.000 i tifosi e gli appassionati che hanno partecipato al memoriale, tra essi vi erano presenti molti ex giocatori e giocatori, nonché allenatori. Ad aprire la commemorazione è stata la cantante Beyoncè, amica di Kobe, che ha cantato due suoi brani tra cui il preferito di Kobe: “Xo”. Nel corso della cerimonia si sono esibite anche Christina Aguilera in Ave Maria e Alicia Keys suonando al pianoforte Sonata al chiaro di luna di Beethoven Si sono poi espressi in memoria di Kobe e della figlia Gianna detta Gigi, il famoso conduttore televisivo Jimmy Kimmel, la moglie e madre Vanessa Laine, Diana Taurasi giocatrice della Wnba e soprannominata da Kobe “White Mamba”, Michael Jordan l’idolo divenuto quasi un fratello maggiore e l’amico-nemico Shaquille O’Neal. | ||
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Versione delle 00:13, 27 gen 2024
Kobe Bean Bryant è stato un cestista statunitense, considerato tra i migliori giocatori nella storia dell'Nba, e il primo tra gli atleti della Nba ad aver giocato per venti stagioni nella stessa squadra: i Los Angeles Lakers.
Infanzia
Kobe Bryant nasce a Philadelphia il 23 agosto 1978, dalla madre Pamela Cox e dal padre Joe Bryant, anch’egli giocatore di basket professionista; la coppia aveva già due figlie Shaya e Sharia. Deve il nome alla famosa e costosa carne giapponese, che i genitori sbirciarono su un menù poco prima del parto.
Periodo in Italia
Kobe ha trascorso la sua infanzia in Italia proprio a causa della carriera del padre Joe, che dopo aver militato in varie squadre Nba, nella stagione 1983/4 non ebbe alcuna chiamata e fu costretto a terminare la sua carriera in anticipo come tanti altri campioni di quel periodo; all’epoca infatti le squadre della lega erano circa la metà di quelle di oggi (30), quelle squadre in meno significavano meno posti disponibili e sicuramente i giovani talenti provenienti dalle università non erano pochi. La famiglia Bryant si trasferì quindi in Italia, dove il padre Joe firmò un contratto con la Sebastiani Rieti, allora squadra di A2. A Rieti, a differenza degli altri figli di giocatori americani che erano iscritti alla Oversease School, Kobe e le sue sorelle frequentarono la Marconi, dove il ragazzo imparò molto bene la lingua italiana, diventando così l’interprete dei genitori che capivano poco della lingua. Le future tre tappe della famiglia Bryant in Italia furono Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia dove all’età di undici anni Kobe frequentò, da studente, l’Istituto San Vincenzo, gestito dalle suore. Gli anni in Italia per Kobe furono importanti e qualsiasi torneo di minibasket a cui partecipava lo vedeva come protagonista, il talento era molto, tanto che il padre arrivò a pronunciare la frase: “Io sono assolutamente certo che Kobe diventerà una stella assoluta della Nba”.
In un’intervista degli ultimi anni Kobe per ringraziare l’Italia ha detto: “I giocatori europei conoscono il basket più di quelli americani. In Europa si insegnano ai giovani le basi di questo sport, i fondamentali. Qui negli Stati Uniti, invece, no. Se non fossi vissuto in Italia quando mio padre giocava lì, quasi certamente non avrei imparato a palleggiare con la mano sinistra, come accade a tanti giocatori cresciuti e formatisi negli Usa.”
Carriera
High school
Una volta tornato negli Stati Uniti, Kobe, cominciò a lavorare duro sottoponendosi ad interminabili sedute di allenamento individuale a ogni ora del giorno e della notte. La scelta della famiglia della high school ricadde sulla Lower Marion, nella quale al termine del suo ciclo liceale avrebbe battuto il record di miglior marcatore di sempre delle high school della Pennsylvania segnando 2883 punti, superando di gran lunga il campione Wilt Chamberlain che ne aveva totalizzati 2252. Nel 1996, all’età di diciassette anni, decise di fare il grande salto tra i professionisti e si dichiarò disponibile per il Draft Nba senza passare per il college, nonostante le offerte da parte di prestigiose università come Kentucky e Duke. Prima di lui, solo Kevin Garnett aveva compiuto il salto diretto dalla high school alla Nba approdando a diciannove anni nei Minnesota Timberwolves.
Nba
I primi anni
Il 26 giugno del 1996 fu annunciato come tredicesima scelta al Draft per far parte degli Charlotte Hornets, che subito dopo lo cedettero ai Los Angeles Lakers in cambio del centro Vlade Divac, in quanto i Lakers avevano appena acquistato uno dei centri più forti della Nba: Shaquille O’Neal. Giocò la sua prima partita da matricola il 3 novembre, contro i Minnesota Timberwolves, fu una prova anonima di appena sei minuti, e zero punti a referto. Non andò meglio la partita successiva contro i New York Knicks nella quale il minutaggio scese a tre minuti, ma Kobe segno il suo primo punto su tiro libero. Il minutaggio in campo aumentò a 15 minuti circa, a metà stagione, ma Kobe era ancora acerbo, lo dimostrarono le scelte sbagliate che prese in campo nella gara cinque dei quarti di finale playoff di quell’anno, persa contro gli Utah Jazz. Il 12 maggio del 1997, dopo un overtime, il primo playoff della carriera di Bryant si chiudeva.
Dopo un’estate di duro allenamento, la seconda stagione cominciò molto bene per Kobe, che nella sua testa aveva un obbiettivo personale molto chiaro: portare in doppia cifra la media dei punti realizzati, media che l’anno precedente si era fermata a 7.6. Nella partita di apertura della stagione mise a segno 23 punti, proprio contro gli stessi Utah Jazz che avevano interrotto il cammino ai playoff dell’anno precedente. Questa stagione fu sicuramente migliore della prima, Kobe arrivò infatti a segnare trentatré punti contro i Chicago Bulls, che però vinsero la partita, guidati da un Michael Jordan che ne segnò trentasei. La stagione si concluse ancora una volta con una sconfitta per mano degli Utah Jazz che si imposero per 4-0 nella serie.
Nella terza stagione Nba, Kobe fu inserito per la prima volta nel quintetto principale e acquisì sempre più fiducia, ma il risultato fu il medesimo; il 17 maggio 1999, Kobe e i Lakers assaporavano ancora una volta l’amaro gusto della sconfitta, uscendo nella semifinale di conference contro i futuri vincitori di quell’anno: i San Antonio Spurs.
Tre stagioni vittoriose
La stagione 1999/2000 fu un anno di svolta per Bryant grazie all’avvento del nuovo allenatore Phil Jackson, che nella stagione precedente aveva vinto il suo quinto titolo con i Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen. Jackson, chiamato anche Maestro dello zen, grazie alla sua vicinanza alle dottrine buddiste, trasmise esse alla squadra e riuscì a ricucire lo strappo interno che si era creato nello spogliatoio dei Lakers tra lo stesso Kobe e il grande Shaquille O’Neal. Secondo il coach, serviva il controllo dello spirito per trasformare un grande numero di giocatori in una grande squadra e per trasformare l’immane ego di Kobe in un’arma capace di infliggere una letale sconfitta alle altre squadre. Il coach con l’aiuto dell’allora capitano Ron Harper portò la squadra alla vittoria del primo titolo. 4-2 finì la serie contro gli Indiana Pacers con un Kobe che nonostante una caviglia slogata riuscì a trascinare la squadra alla vittoria.
Nella stagione successiva i conflitti tra Bryant e O’Neal erano riaffiorati, i due volevano essere entrambi leader, il primo era però riuscito a superare il secondo nelle gerarchie della squadra, grazie ad una prestazione di 40 punti nella prima di campionato, la voglia di vincere era il segnale giusto da mandare al resto della lega. Ma i problemi fisici avevano mostrato al mondo e soprattutto a Kobe stesso che da solo non poteva farcela e che aveva bisogno delle gambe, delle ginocchia, delle teste e dei cuori dei suoi compagni. I Lakers vinsero nuovamente l’anello, ma Kobe nonostante l’ottima stagione non fu l’Mvp, premio che invece venne assegnato all’avversario dei Philadelphia 76ers, Allen Iverson.
Il 2002, fu un anno d’oro per Bryant, che partecipando per la terza volta agli All star game, vinse per la prima volta il premio di Mvp nella partita delle stelle, e nello stesso anno guidò la squadra al terzo titolo consecutivo. Gli anelli al dito erano tre, ma lui non voleva fermarsi
Il post three-peat
Le due stagioni successive a quello che venne chiamato three-peat, non furono positive per i Lakers che persero entrambe le finali, il fattore negativo di quegli anni oltre ai frequenti infortuni che continuavano ad abbattersi sulla squadra, fu un episodio della vita privata di Kobe. Il giocatore che aveva accusato un dolore al ginocchio si era infatti recato a Eagle, in Colorado per consultare uno specialista, e la sera della sua presenza nella cittadina si concluse con l’accusa, da parte di una donna del posto, di violenza sessuale. Per la prima volta la vita privata del numero 8 dei Lakers era sotto gli occhi di tutti e questo oltre ad influenzare negativamente i rapporti con la giovane moglie Vanessa, contribuì ad inasprire ulteriormente il rapporto con l’amico-nemico O’Neal, e con l’allenatore Jackson. Alla fine della stagione infatti questi ultimi lasciarono Los Angeles, che decise di ripartire proprio da Kobe; ma nella nuova stagione i “grandi Lakers” erano solo un lontano ricordo, il team guidato prima da Rudy Tomjanovich e poi da Frank Hamblem, non arrivò neanche alla soglia dei playoff.
Con il ritorno del coach Phil Jackson, il 22 gennaio 2006, alla Staples Center di Los Angeles, Bryant raggiunse il suo carrier hight di punti, mettendone a segno 81, rimanendo secondo nella storia della Nba, per punti realizzati, solo a Wilt Chamberlain che contro i Knicks ne aveva segnati 100. Quell’anno Kobe con i suoi 2832 punti era il miglior marcatore della Lega. Bryant ispirandosi ad un film uscito due anni prima: “Kill Bill:Volume II” di Quentin Tarantino, si scelse il soprannome di Black Mamba, nel film infatti appariva un mamba nero, serpente a cui si sentiva di somigliare, sia per quello che riguardava il modo di giocare che il modo di agire.
La stagione 2006/2007 porto a Kobe un’operazione al ginocchio, un record di 3 partite consecutive nelle quali segnò più di cinquanta punti diventando il quarto giocatore nella storia a solcare quel traguardo, e il suo secondo premio di Mvp agli All Star Game portato a casa insieme a 31 punti.
L’anno successivo il numero sulla canotta dell’ormai campione dei Lakers cambiò dall’8 al 24, e il 23 dicembre del 2007 il giocatore raggiunse la quota di 20.000 punti in carriera; ma la vera svolta avvenne a gennaio con l’arrivo in squadra dello spagnolo Pau Gasol che portò tranquillità a Bryant e affianco a lui cominciò la risalità dei Lakers. Non arrivò il titolo, contro i Boston Celtics, ma il ritorno alle finals fece conquistare a Kobe il titolo di Mvp della Lega, dopo dodici anni di carriera.
La strada era ancora in salita, ma Jackson non aveva dubbi sulla sua squadra, che aveva voglia di rivalsa. Nel 2009 all'All Star Game di Phoenix Bryant, venne nominato mvp e condivise il premio proprio con l'ex compagno di squadra Shaquille O'Neal, con il quale sancì definitivamente la pace. Il titolo tornò ai Los Angeles Lakers, che stracciarono 4-2 i Denver Nuggets di Carmelo Anthony, e Bryant fu l’Mvp delle finals, risultato che raggiunse anche nella stagione successiva insieme alla vincita del suo quinto titolo Nba.
Verso la fine della carriera
Quella fu la fine di un altro ciclo vincente, la stagione successiva, infatti, nonostante il secondo posto nella Western Conference, non aveva attenuato il dolore al ginocchio di Kobe. Dopo un primo faticoso turno playoff contro gli Hornets la corsa si fermò al secondo turno contro i Dallas Mavericks, che quell’anno vinsero il titolo, e alla fine della stagione il coach Phil Jackson che con Kobe aveva avuto degli alti e bassi lasciò Los Angeles. Il 2011 aveva salutato Phil Jackson e aveva fatto conquistare a Kobe un’impronta sulla Walk of Fame di Hollywood, sarebbe stato il secondo atleta ad aver ricevuto un riconoscimento del genere dopo Magic Johnson.
Il 6 febbraio 2012, diventò il quinto miglior marcatore della storia Nba, mentre all'All Star Game (dove giocò nel quintetto base) segnò 28 punti superando Michael Jordan come miglior realizzatore di sempre all'All-Star Game.
Nella stagione 2012/2013, Kobe che aspirava al suo sesto titolo in carriera, si procurò invece un brutto infortunio al tendine d’Achille, a seguito di un contrasto falloso con Harrison Barnes; anche se seppur da infortunato, segnò i 2 tiri liberi successivi al fallo e uscì dal campo sulle sue gambe, senza l'ausilio della barella. La carriera di Kobe nel basket professionistico si stava avvicinando alla fine, il suo corpo stava risentendo di tutti gli infortuni subiti. Mano, caviglia, ginocchio, nella sua diciottesima stagione in Nba, calcò il parquet solamente sei volte, mentre in quella successiva giocando solo trentacinque partite riuscì a diventare il terzo miglior realizzatore della Lega, con 32.293 punti segnati, superando Michael Jordan.
L’ultimo Kobe
Il 29 novembre 2015, il mondo della Nba venne scosso da una lettera struggente: Kobe Bryant aveva annunciato che alla fine della stagione si sarebbe ritirato. Incominciò così un lungo cammino di addio, un tributo infinito alla storia vincente di un campione; in ogni campo dove avrebbero giocato i Lakers vi fu il tutto esaurito, persino nei campi più ostici come quello di Boston. In qualunque arena risuonavano i cori: “Kobe, Kobe”. Il 14 febbraio 2016 a Toronto l’ultima edizione di All Star Game alla quale partecipò Kobe, che dei dieci minuti che voleva giocare inizialmente, ne giocò ventisette spinto dal grande e rispettoso coach Greg Popovich. E in conclusione della sua memorabile carriera, il 13 aprile 2016 Bryant al centro dello Staples Center dice addio ai suoi tifosi dopo aver messo a segno 60 punti, stabilendo un nuovo record da battere: punti segnati da un giocatore nell’ultima partita della carriera.
Il 18 dicembre 2017 i Lakers, in suo onore, hanno ritirato sia la maglia numero 8 che la numero 24 con una cerimonia allo Staples Center presieduta da Magic Johnson. Kobe fu quindi anche il primo giocatore nella storia dell'Nba a vedere due numeri di maglia ritirati dalla stessa squadra.
Nazionale
La carriera in nazionale di Kobe iniziò nel 2007, quando nella panchina del Team Usa arrivo il coach Mike Krzyzewski, con il quale Bryant avrebbe dovuto incrociarsi a diciassette anni se avesse deciso di andare alla Duke, università nella quale allenava proprio il coach dal nome impronunciabile, che venne infatti soprannominato coach K. La nazionale a stelle e strisce veniva dal cosiddetto “nightmare Team” delle Olimpiadi di Atene, e i primi successi della coppia coach K- Black Mamba arrivarono con la vittoria dei FIBA Americas Championship di Las Vegas e con la qualificazione alle olimpiadi di Pechino del 2008.
Il 10 agosto 2008 l’esordio e la vittoria contro i padroni di casa della Cina, con 13 punti e 3 assist per Kobe, che ne mise invece 25 nel successo contro l’Australia. Dopo aver battuto anche l’Argentina, Bryant si ritrova ad affrontare l’ennesima finale ma questa volta per difendere i colori della sua nazione. Dopo tre quarti di partita equilibrata contro la Spagna di Pau Gasol e Ricky Rubio, il Mamba cominciò a fare sul serio e riuscì a mettersi al collo la tanto ambita medaglia d’oro olimpica, la partita si concluse per 188 a 107.
Dopo non aver preso parte al mondiale del 2010, tornò in campo in occasione delle olimpiadi di Londra del 2012 che si conclusero con i suoi 12 punti di media a partita e con la terza medaglia d’oro al collo. Quell’emozione unica di tornare in patria da vincitori fu l’ultima per Bryant che annunciò il suo ritiro dalla nazionale lo stesso anno.
La lettera al basket
Di seguito la lettera al basket di Kobe Bryant, pubblicata dal sito The Players' Tribune: Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te. Un amore così profondo che ti ho dato tutto, dalla mia mente al mio corpo, dal mio spirito alla mia anima. Da bambino di 6 anni profondamente innamorato di te, non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno. E quindi ho corso. Ho corso su e giù per ogni parquet, dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno, ti ho dato il mio cuore, perché c’era tanto altro dietro. Ho giocato nonostante il sudore e il dolore, non per vincere una sfida ma perché TU mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per TE perché è quello che fai, quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire. Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers e per questo ti amerò per sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica ma il mio corpo sa che è ora di dire addio. E va bene. Sono pronto a lasciarti andare. E voglio che tu lo sappia così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme. I momenti buoni e quelli meno buoni. Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati, bidone della spazzatura nell’angolo 5 secondi da giocare. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1…
Ti amerò per sempre, Kobe
Vita privata
La famiglia
Il 18 aprile del 2001 fu il giorno delle nozze di Bryant, che a ventidue anni sposò la allora diciannovenne Vanessa Laine, studentessa di origini ispaniche, conosciuta tre anni prima grazie alla partecipazione di entrambi ad un video musicale. Questa scelta, definita troppo frettolosa dai genitori di Bryant, incrinò i rapporti con essi; Kobe viveva ancora insieme ai genitori nella località di Brentwood, dopo il matrimonio, essi si trasferirono a Philadelphia e ci vollero due anni prima che le due parti si tornassero a parlare. La lontananza dai genitori spinse il giocatore verso un notevole accrescimento di responsabilità. La riconciliazione avvenne grazie alla nascita della sua primogenita Natalia Diamante nata il 19 gennaio 2003. A lei seguirono altre tre figlie: Gianna Maria-Onore nata nel 2006 e deceduta nel 2020 nello stesso incidente che ha coinvolto il padre, Bianka Bella nata nel 2016 e Capri Kobe che venne data alla luce il 20 giugno 2019.
L’accusa di stupro
L’episodio che mise più in crisi il matrimonio della coppia fu senz’altro l’accusa di molestie sessuali da parte di Bryant ai danni di una donna conosciuta a Eagle, in Colorado, nel 2003, dove la stella dei Lakers si era recato per programmare un intervento al ginocchio. L’accusa di stupro derivò dalla diversa versione dei due di quanto successe quella sera: per l’atleta era stato un rapporto consensuale, per la ragazza tutt’altro. La vicenda, non influenzò negativamente solo l’immagine pubblica del giocatore, ma anche l’apparentemente perfetta vita privata che riguardava soprattutto il nucleo familiare. La vicenda giudiziaria durata più di un anno si concluse con il ritiro delle accuse da parte della donna, ma l’episodio segnò profondamente il rapporto tra i due coniugi. Il 16 gennaio 2011 Vanessa avanzò una richiesta di divorzio citando “differenze inconciliabili” e richiedendo la custodia delle due bambine. Ma l’amore tra i due non era cessato anni prima con un’accusa che poteva costare a Kobe circa quattro anni di galera, e non cessò nemmeno allora. Nel gennaio del 2013 la coppia annunciò sui social di aver ritrovato la serenità e di aver rinunciato al divorzio.
La vita dopo il basket
Dietro l’abilità atletica di Kobe Bryant c’era un uomo creativo, ispirato a raccontare la sua complessa storia di vita attraverso l’arte. Tant’ è vero che nel 2017 la lettera scritta al basket due anni prima venne convertita in un cortometraggio animato dal titolo “Dear Basketball” diretto dall’animatore statunitense Glen Keane. Nel gennaio del 2018 venne annunciata la candidatura agli Oscar come miglior cortometraggio d’animazione; il 4 marzo di quell’anno Bryant diventò il primo sportivo ad aver vinto la statuetta dorata degli Oscar.
Nell’agosto 2018, Kobe lanciò un podcast per bambini chiamato The Punies, con storie audio e sceneggiatura incentrate su un personaggio chiamato Puny Pete, con l’obbiettivo di ispirare i giovani ascoltatori a raggiungere il loro pieno potenziale. Bryan ha basato la serie sulla sua infanzia, Puny Pete era infatti “ambizioso e determinato, ma mansueto e insicuro con la paura di fallire”, come lo stesso Kobe.
Il 12 novembre 2018 pubblicò un libro, intitolato The Mamba Mentality - Il mio basket nel quale parla della sua carriera, collaborando con l’ex coach Phil Jackson e con l’ex compagno di squadra Pau Gasol per la stesura di esso. Ma soprattutto una volta lasciato il basket, Bryant, si dedicò con tutto il cuore alla sua famiglia, in particolare ponendo molta attenzione sulla figlia Gianna che stava cercando di seguire le orme del padre, e sembrava averne la stoffa.
La morte
Se la notizia dell’abbandono del basket da parte di Kobe Bryant commosse i fan, quella che iniziò a circolare il 26 gennaio 2020 gli lasciò senza parole: la mattina di quel giorno, Bryant, insieme a sua figlia Gianna Maria e altre sette persone, perse la vita in un incidente con l’elicottero (elicottero personale con il quale era solito spostarsi anche ai tempi degli allenamenti con i Lakers). Dopo un decollo tranquillo alle 9:40 il velivolo perde colpi, si avvita su se stesso e precipita, schiantandosi nella zona collinosa e boschiva di Calabasas, California, per i passeggeri non c’è stato niente da fare. Tra le probabili cause dell’incidente vi era la nebbia, ma successivamente si scoprì che il pilota aveva violato le regole di volo, spingendo il velivolo “oltre ai limiti”, limiti dovuti alla scarsa visibilità che aveva a causa della nebbia. La vedova del giocatore, ha denunciato la compagnia degli elicotteri e il pilota di negligenza, ottendo 30 milioni di dollari di risarcimento.
Per il funerale, la famiglia ha scelto una cerimonia privata, a cui erano presenti pochi intimi, nel massimo della riservatezza, dopodiché il 24 febbraio 2020 circa un mese dopo la scomparsa del Black Mamba, vi fu il Memorial allo Staples Centre di Los Angeles per un ultimo addio. Erano 20.000 i tifosi e gli appassionati che hanno partecipato al memoriale, tra essi vi erano presenti molti ex giocatori e giocatori, nonché allenatori. Ad aprire la commemorazione è stata la cantante Beyoncè, amica di Kobe, che ha cantato due suoi brani tra cui il preferito di Kobe: “Xo”. Nel corso della cerimonia si sono esibite anche Christina Aguilera in Ave Maria e Alicia Keys suonando al pianoforte Sonata al chiaro di luna di Beethoven Si sono poi espressi in memoria di Kobe e della figlia Gianna detta Gigi, il famoso conduttore televisivo Jimmy Kimmel, la moglie e madre Vanessa Laine, Diana Taurasi giocatrice della Wnba e soprannominata da Kobe “White Mamba”, Michael Jordan l’idolo divenuto quasi un fratello maggiore e l’amico-nemico Shaquille O’Neal.